Agli equipaggi

Targa Florio, il dono di Polizzi: l’articolo di Borgese per la prima edizione

L’intellettuale polizzano scrisse per L’Ora un prezioso articolo che il sindaco offre ai protagonisti della corsa

Targa florio prima edizione

Polizzi Generosa. Nei giorni 9-11 maggio 2024, a Polizzi si corre  la Targa Florio, soprannominata per l’occasione “la Generosa”, e durante la manifestazione a tutti gli equipaggi sarà regalato un opuscolo contenente un articolo di particolare preziosità: si tratta dell’articolo che Giuseppe Antonio Borgese scrisse per
presentare la prima edizione della Targa Florio (datata primavera 1906).

E proprio in queste giornate si correrà in paese, passando sotto la casa di Borgese e sotto il suo murale.

L’obiettivo, per la 108ª  edizione della Targa Florio, è stato quello di regalare la conoscenza dell’articolo scritto da Borgese per il giornale l’Ora.

Il sindaco di Polizzi, Gandolfo Librizzi, commenta “Mai, prima d’ora, era avvenuta una cosa del genere, almeno a Polizzi Generosa, dacché la storia della Targa Florio narra di epiche corse che anche qui, in queste contrade, si sono snodate fin dalle prime edizioni, con immagini conservate negli archivi a testimoniare un mondo oramai andato.

 

Borgese

Così, un’intera comunità vive oggi la trepidante frenesia dell’eccitazione preparandosi ad accogliere al meglio, oltre che l’organizzazione, i numerosi piloti che arriveranno da ogni dove
per vivere la magia sempre eterna di questa corsa su strada, la più antica del mondo.

La stessa “meraviglia mista a contentezza” con la quale una firma illustre del giornalismo italiano e uomo di grandi visioni umane, culturali e cosmopolite quale fu Giuseppe Antonio Borgese, “accolse il programma del circuito”, allorquando fu inviato a scriverne sulle colonne del giornale L’Ora,  proprio da questo suo paese natio, epicentro della prima edizione che si sarebbe corsa nella primavera del 1906”.

Di seguito il prezioso articolo di Giuseppe Antonio Borgese.

Polizzi Generosa, 17 novembre 1905

Ai lettori dell’Ora, pei quali lo sport occupa il primo posto dopo la politica internazionale, non dispiacerà saper qualcosa dei paesi che attraverseranno gli automobili nella prossima
primavera, disputandosi i ricchi premi e la Targa Florio.

Io ne scrivo proprio dal centro del circuito, sebbene questo paese dal duplice nome non sia propriamente sulla via della gara. Ma la strada nazionale che da Termini sale fino a Petralia
Soprana, che s’alza ad oltre millecentoquaranta metri dal mare e ove la corsa raggiungerà il suo apogeo altimetrico, poco prima dell’umile villaggio di Castellana si biforca, procedendo per
appena quattro chilometri verso tramontana, finché raggiunge questo borgo annidato sopra una selvaggia roccia di mille metri. Il quale ebbe il suo onorifico epiteto di generosa dalla
magnificenza con cui riscattò i suoi privilegi parecchie volte conculcati dalla boria dei re aragonesi, e fu assai importante e popoloso nel Medio Evo come c’insegna perfino il Baedeker, ed ebbe un castello e una moschea e poi fu degno, in una celebre occasione, d’ospitare il Parlamento del Regno. Anch’oggi ha le sue poche ma non spregevoli glorie: ché si vanta di aver dato i natali al cardinale Mariano Rampolla e più ancora si vanta di custodire in una sua piccola chiesa purtroppo staticamente mal sicura un meraviglioso trittico fiammingo che se non è merita indubbiamente di essere opera di Van Dyck.

È naturale perciò ch’io conosca mediocremente le vie, sulle quali la vegnente primavera udrà un insolito frastuono. E più naturale è ch’io abbia accolto con meraviglia mista a contentezza il programma del nuovo circuito, lieto che
finalmente si sappia dai forestieri e anche un po’ dagli italiani non essere la Sicilia un solo pezzo di costa senza territorio, a un di presso come i nostri possedimenti in Benadir. La storia e l’arte, la vita civile e persin l’agricoltura furono sempre marittime, nell’isola, e l’interno si può dire ancor oggi inesplorato e tenebroso come un hinterland africano. Pure non è a credere che solamente Taormina sia pittoresca e che dietro i goethiani aranceti non si stenda che lo squallore e la morte, le terre dei fasci e il casino di Grammichele.

Gli chauffeurs del prossimo maggio si lasceranno alle spalle Termini, la città bianca di memorie puniche e siracusane, che alza la testa verso un gran monte dalla cima ricurva e bagna i suoi piedi in un golfo degno di ecloghe elleniche, e saliranno verso la montagna attraverso Cerda e la saracena Caltavuturo, acquattata sotto le spaventose rovine di un castello, ove per certo nidificano i corvi.

Il primo tratto della via non ha nulla da esaltar gli occhi dei gareggianti, che del resto rimarrebbero fissi sul volante in ogni caso: appena si saran lasciata addietro la costa albeggiante d’olivi e nereggiante d’aranceti entreranno nel tristo paese del latifondo, tinto di bassa verdura a primavera, giallo in estate, nero nell’autunno, deserto tutto l’anno fuor che nel mese della falce e nel mese dell’aratro.

Di tratto in tratto qualche coppia di bufali, qualche armento di magre cavalle baie; qua e là un filo d’acqua pigra che si rigonfia in bolle asmatiche nel meato della cannella borraccinosa e poi verdeggia nella vasca rude, ove i muli immergono malvolentieri il muso; e, dov’è l’acqua, una piccola casa ceneregnola senza
finestre e lì presso un alberello striminzito curvo sulla sua radice come un contadino invecchiato sulla marra, le cime calve, umili e prolisse s’alzano a fatica da valli aperte come lenti
sbadigli, entro cui biancheggiano i letti aridi dei torrenti: immagini di una campagna romana, ma senza quel soffio di tragedia.

Più tardi però il paese si slarga, dando adito alla vista fin sulle montagne azzurre del mezzogiorno e sulla eccelsa Castrogiovanni. E dopo, oltrepassato il bivio di Polizzi e le due Petralie, la strada costeggia la catena delle Madonie, nome
classicamente sonoro di montagne belle come gli Appennini abruzzesi, ombroso di faggi, ricovero di falchi, canore d’acque criscianti e di nomi eroici come il piano della Battaglia, che parecchie volte ricorre in memoria dell’ostinata resistenza mussulmana alle armi crociate del conte Ruggero.

Dopo Isnello, ritorna alla vista di tra i boschi il mare, che s’apre ampio e soave innanzi a Collesano. I corridori vedranno olivi ampii e
nodosi com’elci, ville alte sul piano come nidi d’aquile, borghi biancheggianti su rupi precipitose e Termini pendula sul golfo.

La via percorre latifondi e boschi. Tra un paio d’anni, quando sarà compiuta la novissima via tra Polizzi e Collesano, che è provinciale, ma saldissima, larga, ben levigata e superiore per
cento rispetti alla nazionale tra Petralia e Geraci, si potrà forse con qualche utilità modificare ancora una volta il circuito. Il punto culminante non oltrepasserà i mille metri, ma in compenso i forestieri e gli italiani stessi conosceranno la più
florida oasi della Sicilia interiore; contrade di nomi pittoreschi e soavi come Drispo Bianco, Chiaretta, Santa Venera, felici d’acque e d’ombre, deliziose d’una cultura multiforme in cui la severità della montagna imminente è mitigata dal vento marino che s’incanala lungo la greca valle dell’Imera e il fico d’India fa siepe al bosco d’Avellani, l’olivo si torce fra il castagno e
l’arancio, l’agave africano non disdegna la compagnia della nordica quercia.

Sarà una buona occasione per imparare che
anche in Sicilia ci sono zone di agricoltura razionali o quasi, nelle quali vige la mezzadria toscana e magari il fitto olandese.

Del resto, le terre che traverseranno gli automobili, non han nulla di barbarico. Qualche paese, tra cui il mio, si permette il magro lusso d’un illuminazione elettrica intermittente secondo la magra o la piena delle fiumane; tutti o quasi tutti son forniti di fognature ed acqua potabile; Petralia Sottana è una piccola città industriosa, dove strepita un grande mulino idraulico fabbricato secondo tutte le regole dell’arte, che fornisce paste e farine a tutta la popolazione del circuito.

Vera miseria non c’è dacché l’emigrazione ha rialzato automaticamente il salario dell’artigiano a tre lire e cinquanta e quello contadino a quasi due lire. Nelle montagne che s’alzano sulla strada c’è ancora qualche lupo, ma non ci sono più briganti da un pezzo. La stessa oscurità dei nomi che vi son passati sotto gli occhi è un ottimo indizio dell’indole di questa brava gente – contadini dal mento centurionesco e borghesi dal labbro saraceno – anime cortesi e miti, cervelli acuti e saggi, che tollerano ancora le sfuriate dei padroni, non invidiano la celebrità di Castelluzzo, non desiderano le visite dell’onorevole Todeschini, non scannano i cappelli e non danno grattacapi alla prefettura.

Si può dire che anche i crimini privati vi sono
pressocché sconosciuti: l’uomo di marina, il mafioso tracotante e amico dei fatti coi pantaloni larghi e il berretto a sghembo è tenuto in orrore da questi montanari, i quali, se qualche volta rubano, rubano un paniere di fichi e una pollastra.

Col che non si vuol dire che queste forre siano un ignorato Eden di civiltà; la civiltà è tardigrada quassù, e lontana dodici ore di diligenza, che tante ce ne vogliono dalla stazione di Cerda a
Petralia Soprana. E che diligenza! un quid medium fra una grande trappola di topi e una gigantesca scatola di fiammiferi, gialla canarino all’esterno e verdeggiante all’interno del velluto
smesso dai vagoni ferroviari, fornita di certi fine strini di legno con due bucherelli vetrati e regolarmente incrinati, dai quali permea certa luce che non basterebbe a un ergastolano e certi
riscontri che basterebbero a fare un guaio nei polmoni a padre Agostino.

Non ci manca, per far l’opera completa, altro che una targhetta la quale avvisi a caratteri cubitali esserci là dentro posto per dodici persone, quegli ingenui passeggeri i quali a occhio e croce giudicano che ci vanno appena sei ragazzi.

Dicono che la corsa primaverile abbia a preludere a un servizio pubblico di automobili, di cui lo stesso Florio si farà iniziatore.

Veramente questa buona gente è affezionata, in fondo all’anima, a un certo suo progetto ferroviario d’antica data e d’indefinita scadenza; ma, alla peggio, si contenterebbero dei
teuff-teuff, sebbene non li conoscano che di fama, e, per giunta, di cattiva fama.

I baroni di quassù non han soldi da sperperare in macchine pericolose, e preferiscono dondolarsi alla meglio sopra un mansueto cavallo bastardo o, anche meglio, sopra una cavalla, che cumula la virtù di fare una bella figura tra i campieri e di partorire i puledri che poi si vendono.

Un certo signore volle una volta profanare il sacro silenzio di queste vie, percorrendole in
una vetturetta; ma dovè tante volte tornare a Palermo per riparare le più bizzarre e incredibili panne, che toccò la meta della sua impresa dopo circa una settimana, mentre la diligenza, come vi dicevo, ci mette solo dodici ore. E i montanari
aspettano con grand’ansia la primavera per persuadersi che le macchine vanno davvero più leste della corriera postale.

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