L’intervista

Il digiuno, la diga, lo sciopero alla rovescia: i cent’anni di Danilo Dolci

Il figlio Amico racconta il protagonista di rilievo internazionale della cultura e dell’attività di impegno sociale e civile, che in Sicilia ha promosso e realizzato le sue iniziative più rivoluzionarie

Danilo Dolci

Il 28 Giugno di cento anni fa nasceva a Sesana, allora in provincia di Trieste, oggi cittadina slovena, Danilo Dolci, sociologo, poeta, educatore, filantropo, attivista della non-violenza, candidato per nove volte al Nobel per la pace, protagonista di rilievo internazionale della cultura e dell’attività di impegno sociale e civile nel secondo Novecento, che ha trascorso in Sicilia gran parte della sua vita e in Sicilia ha promosso e realizzato le sue iniziative più rivoluzionarie.

In questi giorni tutti i quotidiani nazionali e diverse testate radio-televisive gli dedicano articoli e contributi. Cefablu ha pensato di ricordarlo con un’intervista al figlio Amico (nella foto qui sotto), musicista con esperienze concertistiche in Italia e in diversi paesi europei, a lungo docente del Conservatorio di Palermo, erede e prosecutore dell’esperienza di lavoro sociale ed educativo del padre.

Amico da anni possiede un’abitazione nelle campagne tra Castelbuono e Pollina, dove viene spesso a trascorrere i suoi periodi di tempo libero. Lo abbiamo incontrato a Cefalù insieme alla moglie Lucina, anche lei educatrice.

 

Amico Dolci

 

La vita di suo padre è stata così intensa, varia, movimentata, spesso difficile e contrastata, che a raccontarla tutta forse non basterebbero un film o un romanzo. Ci aiuti a ricostruirne almeno i momenti più salienti.

Gli anni della formazione

Papà nasce all’estremo confine nord-orientale dell’Italia di allora, da mamma di origine slovena e padre originario di Rovato (Brescia), il cui lavoro di ferroviere comportava per la famiglia frequenti trasferimenti. Studia in Lombardia, prende un diploma da geometra e uno di maturità artistica a Brera. È attratto dalla musica classica, dalla meditazione, dai libri. Nel ‘40 suo padre viene trasferito come capostazione a Trappeto, un paesino del golfo di Castellammare e papà, sedicenne, comincia a frequentare, durante la chiusura delle scuole, i pescatori e i contadini del posto e a conoscerne le dure condizioni di vita.

Nei primi anni di guerra si trova ad abitare presso Tortona, terra di mezzo tra Piemonte, Lombardia e Liguria.

Mostra una decisa avversione al fascismo, viene visto strappare manifesti propagandistici e messo sotto controllo. Nell’autunno del ‘43 si rifiuta di arruolarsi con le truppe repubblichine, tenta di andare verso sud, ma viene arrestato a Genova. Riesce a scappare e si rifugia nell’Appennino abruzzese, dove una famiglia di pastori gli dà ospitalità. Alla fine della guerra ritorna a Milano, studia Architettura al Politecnico, dove conosce Bruno Zevi, e si mantiene insegnando in una scuola serale di Sesto San Giovanni, centro operaio dell’hinterland milanese, per non gravare sulle modeste risorse della famiglia.

In quel periodo comincia anche a scrivere?

Sì, scrive soprattutto poesie e verso la fine degli anni Quaranta è già un autore conosciuto. Concorre nel ‘47 a un premio letterario indetto dal quotidiano socialista di Lugano Libera Stampa, che è stato il primo quotidiano antifascista in lingua italiana pubblicato in Europa. La giuria lo inserisce nella rosa dei finalisti insieme a Pasolini, Zanzotto, Camilleri, Maria Corti e David Maria Turoldo, tutti giovanissimi, dimostrando, come dirà Camilleri, di avere “la vista lunga”. E l’anno dopo fa stampare, in forma ciclostilata, la sua primissima pubblicazione, L’ascesa della felicità, raccolta di pensieri in cui affiorano temi come il rifiuto di separare teoria e prassi o il lavoro educativo fondato sulla valorizzazione della creatività individuale e di gruppo. Temi che avranno un ruolo determinanti nelle decisioni che si accinge a prendere.

Di quali scelte si tratta?

L’esperienza di Nomadelfia

Nel 1950 papà ne compie una fondamentale. A un passo dalla laurea in Architettura (aveva finito gli esami e stava lavorando alla tesi), lascia l’università e va a vivere a Nomadelfia, una comunità di accoglienza per bambini sbandati a causa della guerra fondata nell’area del campo di concentramento nazifascista di Fossoli (non lontano da Modena), da don Zeno Saltini, sacerdote molto apprezzato da padre Turoldo, ma inviso al Sant’Uffizio e ai benpensanti in genere. Ne diventa uno stretto collaboratore, al punto da coordinare nel ‘51 i lavori per la fondazione di una nova sede della comunità presso Grosseto, dove si trova ancora oggi e dove papà ha lavorato al progetto urbanistico e ha disegnato il progetto della chiesa.

 

Danilo Dolci

 

L’anno successivo, il 1952, lo attende una scelta ancora più radicale. Senza consumare alcuna rottura con don Zeno e la comunità di Nomadelfia, che forse giudicava un po’ separata da mondo, decide di andare a vivere nel poverissimo borgo siciliano di Trappeto, che aveva conosciuto da adolescente. Vi arriva con una tenda e 30 lire in tasca, vi ritrova, tra i pescatori, alcuni vecchi amici del tempo passato, vive e lavora in mezzo a loro.

Finché dopo pochi mesi, sempre nel ‘52, succede qualcosa che cambierà la sua vita e quella di tutta Trappeto…

Il digiuno a Trappeto

Succede che vede un bimbo, che si chiama Benedetto, figlio di una mamma che non mangiava da giorni e di un padre in galera per il furto di qualche limone, morire di fame, nonostante il suo estremo tentativo di fargli assumere del latte in polvere che si procurava, da una farmacia di Balestrate, per i bambini più denutriti. Sembra una cosa assurda, nell’Italia di soli 70 anni fa, ma non era la prima volta, succedeva qui in Sicilia almeno tre o quattro volte l’anno.

Lui decide però che la morte per fame è una cosa troppo oscena per continuare ad accettarla e il 14 Ottobre, dal letto su cui si era spento il piccolo Benedetto comincia il suo primo digiuno. “Non è possibile continuare a mangiare, se i bambini muoiono di fame”, dice. “Se permettete che i bambini muoiano di fame, allora lasciate morire anche me”. Alcuni pescatori suoi amici gli si affiancano nella protesta e si dichiarano pronti a sostituirlo, qualora fosse morto.

Fu allora che si cominciò a parlare, sulla stampa nazionale, di lui come Gandhi italiano?

Anche se lui poi precisò che il suo digiuno non fu frutto di un programma o di un ragionamento elaborato, non aveva ancora nemmeno letto Gandhi, si trattò di una scelta più che altro istintiva, non voleva accettare che ci fosse ancora un paese senza fognature e senza strade, anzi con le fognature e le strade che erano la stessa cosa.

Comunque la protesta fece clamore. E quando mio padre cominciava a star male, arrivò un funzionario della presidenza della Regione con la garanzia dell’avvio dei primi lavori: costruzione di fognature, di una strada, interventi per far arrivare l’acqua potabile. I lavori partirono e la protesta fu sospesa. Anche se la situazione rimaneva molto difficile, le cose cominciarono lentamente a cambiare.

In seguito a questa vicenda suo padre entra in rapporto con diversi attivisti e personalità del mondo della cultura. Quali di essi gli furono più vicini?

Innanzitutto il filosofo Aldo Capitini, teorico della non violenza, poeta ed educatore come lui. Gli sarà sempre amico, lo sosterrà concretamente in tutte le iniziative e già nel 58’ gli dedicherà una biografia. Poi Ernesto Treccani, Lucio Lombardo-Radice, Franco Alasia, suo strettissimo collaboratore per più di vent’anni. E Carlo Levi, legato a mio padre, come gli altri, da esperienze condivise: l’impegno civile, l’antifascismo, la scrittura, l’arte, la questione meridionale. Al primo incontro con papà a Trappeto Levi dedica alcune pagine dei suoi resoconti di viaggi in Sicilia raccolti in Le parole sono pietre. Lui, come quelli che ho nominato e altri ancora, è rimasto per me una figura familiare, ne conservo diversi ricordi. L’ultimo quando andammo a trovarlo a Roma pochi mesi prima che morisse. Era ormai quasi completamente cieco, ma cercava sempre di scrivere e disegnare. Ma sono tante le persone che venivano a Trappeto per incontrare papà, specialmente dopo la vicenda della protesta di Partinico, del carcere, e dei successivi processi…

Sempre a Trappeto, suo padre trova l’amore e si sposa.

Sì, conosce la mamma, Vincenzina, rimasta vedova dopo la morte del marito per malattia, e la sposa nel ‘53, superando pure la contrarietà del prete… Lei aveva già cinque figli e da papà ne avrà altri cinque: Libera, Cielo, morto improvvisamente due anni fa, io, Chiara e Daniela. Il matrimonio durerà vent’anni, poi si separeranno.

In quel periodo intensissimo suo padre scrive anche i suoi libri forse più conosciuti. Ce li può ricordare brevemente?

Vorrei partire dal primo che ha scritto in Sicilia, ma è pubblicato a Torino nel ‘54: Fare presto (e bene) perché si muore, un titolo che grida urgenza, in cui descrive, quasi in presa diretta, storie di assoluta miseria ed emarginazione, ma anche qualche inizio di cambiamento e riscatto. Poi arrivano nel ‘55 Banditi a Partinico, edito da Laterza con la prefazione di Norberto Bobbio, che riprende e amplia la tecnica narrativa di Fare presto e viene subito tradotto in varie lingue; e nel ‘56 Inchiesta a Palermo, un’indagine sulle condizioni di vita nei quartieri più poveri del capoluogo, che esce per Einaudi con la prefazione di Aldous Huxley e costerà a papà e ad Alberto Carocci, direttore della rivista Nuovi Argomenti che ne aveva anticipato alcuni capitoli, uno dei suoi processi.

Sciopero alla rovescia

Huxley è solo uno dei tanti intellettuali stranieri che si sono impegnati per sostenere Danilo Dolci e le sue cause. Siamo nel ‘56, l’anno della vicenda forse di maggior risonanza, nazionale e mondiale, legata alla sua figura: lo “sciopero alla rovescia”, cioè la protesta, attraverso il lavoro, di persone condannate, dal contesto in cui vivono, a non avere lavoro.

Papà, con le sue iniziative, non ha mai pensato di “calare” un qualcosa dalla sua testa, dalle sue idee, dentro il mondo circostante. Cercava sempre di riprendere e rilanciare azioni che erano già state attuate o tentate, ma senza effetti concreti, perché troppo isolate o stroncate subito dalle autorità. Così fu per quello “sciopero” del 2 Febbraio del ‘56.

Dei singoli episodi c’erano già stati, ma nessuno li conosceva. Quel giorno partecipano centinaia di braccianti, che si mettono ordinatamente a lavorare ai lati della “trazzera vecchia” di Partinico, abbandonata da anni dall’incuria delle varie amministrazioni. Le forze dell’ordine caricano con violenza, papà e gli altri organizzatori vengono arrestati e portati all’Ucciardone. Il 21 Febbraio il giudice nega la libertà provvisoria, mentre la vicenda infiamma il paese. Partono interrogazioni parlamentari, giungono reazioni da tutto il mondo.

 

Danilo Dolci

 

La schiera delle personalità che da quel momento gli offrono sostegno è impressionante. A quelli che già lo conoscevano e frequentavano, come Capitini, Zevi, Bobbio, Lombardo-Radice, si aggiungono, per sostenerlo in questa e successive battaglie, scrittori come Moravia, Silone, Zavattini e, dall’estero, Erich Fromm, Bertrand Russell, Jean Piaget, Jean Paul Sartre, Lewis Mumford, oltre ovviamente a Huxley.

Nel processo vengono a deporre come testimoni a sua difesa Carlo Levi e Elio Vittorini. Piero Calamandrei, che assume la difesa a titolo gratuito, pronuncia una celebre accorata arringa, di cui ci sembra doveroso ricordare almeno queste parole: “Aiutateci, signori giudici, con la vostra sentenza, aiutate i morti che si sono sacrificati e aiutate i vivi a difendere questa Costituzione, che vuol dare a tutti i cittadini del nostro paese pari giustizia e pari dignità.”

Fu la sua ultima arringa. Morirà pochi mesi dopo, a Settembre, a 67 anni. Ci saranno altri processi, come quello per Inchiesta a Palermo, ma papà continuerà le sue battaglie, digiuni e proteste pacifiche. Il cardinale di Palermo Ruffini giungerà ad affermare nel ‘64, in una lettera pastorale, che i fattori che maggiormente hanno disonorato la Sicilia sono tre: il gran parlare di mafia, l’immagine negativa della Sicilia propagata nel mondo dal successo del romanzo Il Gattopardo, e Danilo Dolci.

Quale delle tante iniziative di sua padre ha lasciato, a suo giudizio, una traccia più duratura?

La diga di Partinico

La diga di Partinico sul fiume Jato, detta anche lago o invaso Poma, che può contenere più di 70 milioni di metri cubi di acqua, una delle più grandi in Sicilia. Anche in questo caso il progetto non era un parto della sua mente, giaceva morto e sepolto in qualche ufficio. Ci vollero scioperi della fame e anni di mobilitazione, ma alla fine la diga fu realizzata. In cinque-sei anni, molto poco rispetto ai tempi interminabili dei lavori per le opere pubbliche nel Mezzogiorno. Sotto l’aspetto ingegneristico è stata fatta molto bene. Non ha avuto danni nemmeno dal terremoto del ‘68. I primi presidenti del consorzio di 800 contadini che la gestiva erano semi-analfabeti. Il problema dell’acqua, sia a uso potabile che irriguo, è stato sempre in cima ai pensieri e alle azioni di papà.

Forse molti conoscono il Lago Poma, che da trent’anni è classificato come oasi naturalistica ed è monitorato mensilmente dalla Regione perché essenziale all’approvvigionamento idrico di Palermo e dintorni, ma pochi sanno che la sua esistenza è dovuta all’impegno civile del condannato Danilo Dolci, uno dei grandi “disonori della Sicilia”…

Una studentessa di Viterbo voleva fare una tesi sul tema dell’acqua e della sua gestione. Va in Olanda che, avendo buona parte del territorio sotto il livello del mare, dev’essere il posto giusto. Il suo prof le dice: Tu qui? Dovresti studiare Dolci per l’acqua.

Se si guarda agli effetti concreti sul territorio, la diga sullo Jato è stata la più significativa vittoria di mio padre. Basta pensare alla differenza con altre dighe, o realizzate, come il lago Garcia, a Contessa Entellina, o progettate, cominciate e mai compiute, come la diga di Blufi.

Per la diga di Blufi sono stati spesi fiumi di soldi senza costruirla. Un po’ come il ponte sullo Stretto. E anche fiumi di inchiostro e di parole. Ce ne siamo occupati di recente anche noi di Cefablu…

È stata costruita invece la diga Garcia, che ha una capienza simile a quella sullo Jato. Ma è costata tantissimo sangue – una guerra di mafia con centinaia di vittime – una montagna di miliardi e la vita del giornalista Mario Francese che indagava sugli intrecci di affari, o malaffare, ad essa connessi.

Così veniamo alla mafia, che non poteva non vedere in Danilo Dolci una minaccia per le sue logiche di potere, per il sistema di sottosviluppo, disuguaglianze e ingiustizie sociali di cui essa ha sempre cercato di essere garante e grande profittatrice.

Dolci e la mafia

E lui non poteva non ricambiare questa profonda avversione. Studiò il fenomeno mafioso e ne denunciò pubblicamente gli intrecci con la politica e le istituzioni. Nel ‘65 fu processato e condannato per aver accusato di collusione con la mafia un ministro, Bernardo Mattarella, e un sottosegretario, Calogero Volpe. È una vicenda che ha continuato ad avere strascichi…

C’è una foto famosa che ritrae suo padre accanto a Peppino Impastato durante una manifestazione.

Fu scattata durante la “Marcia per la Sicilia occidentale e per un mondo nuovo”. Si svolse nel ‘67, a Marzo, da Partanna a Palermo, un percorso di 200 chilometri. Vi parteciparono migliaia di persone, tra le quali Levi, Lombardo-Radice, Treccani, Ignazio Buttitta, Pietro Pinna, il poeta e attivista vietnamita Vo Van Ai e, per l’appunto, Peppino Impastato, giovanissimo.

Lui e papà avevano in comune anche l’interesse per la radio. Radio Libera Partinico, voluta da papà e da Franco Alasia nel ‘70 per denunciare la condizione dei baraccati del Belice a due anni dal terremoto, fu chiusa 27 ore dopo l’inizio delle trasmissioni perché violava il monopolio statale. Radio Out di Peppino Impastato, nata nel ‘77 dopo la liberalizzazione dell’etere sancita dalla Corte Costituzionale, durò un anno e gli costò la vita.

Suo padre ebbe mai minacce dirette?

Probabilmente sì, ma non lo veniva certo a dire a noi, che eravamo bambini o adolescenti. Ricordo di aver sentito parlare di minacce di attentati, che per fortuna non si concretizzarono. Va detto anche che lui non era mai solo, era sempre attorniato da una comunità che ne condivideva ogni azione e da persone pronte ad assumersi ogni rischio, spesso perché non avevano nulla da perdere. Falcone diceva che la mafia uccide più facilmente chi è solo, chi è privo di sostegno. Poi ovviamente molto dipende anche dalla sorte o dal caso. Il confine tra la vita e la morte è così sottile…

 

danilo dolci

 

Dalla Chiesa e Borsellino sono un esempio eclatante di servitori dello stato, rimasti isolati, che lo stato non è riuscito a proteggere, sempre per citare Falcone. Che rimase anche lui solo, almeno in Sicilia, dopo lo smantellamento del pool, l’attentato dell’Addaura, la stagione dei “corvi”. Peraltro suo padre sapeva bene che per fronteggiare meccanismi di potere così perversi e radicati come la mafia, l’impegno delle istituzioni, delle forze dell’ordine e dei magistrati, per quanto essenziale, non può bastare.

Anche per questo lui fin dagli ‘50 punta sull’educazione come fattore primario di riscatto e cambiamento sociale. Senza un approccio che aiuti a liberare, fin dall’infanzia, le potenzialità presenti negli individui, il progresso morale, sociale e civile di una comunità è improponibile.

La maieutica reciproca

L’approccio che suo padre ha teorizzato e attuato è conosciuto come “maieutica reciproca”. Riferendosi a un testo basilare relativo a questo metodo, uscito da Einaudi nel ‘73 con il titolo Chissà se i pesci piangono, ripubblicato nel ‘18 da Mesogea a Messina, Gianni Rodari scrisse: “Educatori, per Danilo Dolci, sono tutte le persone che aiutano gli altri a costruirsi. Non basta (ma è indispensabile, naturalmente), che essi dispongano della tecnica corretta per insegnare quello che sanno. Occorre che siano interessati agli altri; che sappiano stare tra gli altri come una persona che insegna e impara in ogni momento, da se stesso e da tutti. La cattedra non fa il maestro.”

Quel libro documenta il lavoro preliminare fatto con Franco Alasia, Pino Lombardo e tanti altri in prospettiva dell’apertura del Centro Educativo di Mirto. A questo progetto mio padre ha dedicato nei primi anni ‘70, tra mille ostacoli di ogni tipo, una quantità enorme di tempo e di energie, ed è stato coadiuvato da persone come Paulo Freire, Johan Galtung, Paolo Sylos Labini, Italo Calvino, Aldo Visalberghi, oltre a Treccani allo stesso Rodari. Anch’io, ancora adolescente, partecipai con degli interventi musicali a incontri in Italia e all’estero organizzati per raccogliere fondi. Il centro fu inaugurato all’inizio del 1975 e papà negli anni successi si è impegnato assiduamente per la diffusione della maieutica reciproca nelle scuole, incontrando centinaia di docenti, mostrando la possibilità di fare scuola in modo diverso, all’insegna della comunicazione e non della mera trasmissione del sapere.

Il centro di Mirto fu riconosciuto, prima come scuola sperimentale e poi a tutti gli effetti come scuola statale. Col passare del tempo, dopo la morte di papà, la sua spinte fortemente innovativa è scemata. Ma la maieutica è ancora al centro dell’interesse e dell’attività del Centro di Sviluppo Creativo Danilo Dolci, che ha sede in Via Roma a Palermo e segue e promuove diverse iniziative e progetti.

 

Danilo Dolci

 

In occasione del centenario si sono svolti, si svolgono e sono in programma molti eventi per ricordare suo padre. Menzioniamo soltanto un convegno all’Università di Palermo e un festival di quattro giorni a Trappeto. A Luglio e Agosto, a Gibellina, sono previste altre iniziative nell’ambito delle Orestiadi. Al di là dell’anniversario, lei come vorrebbe che fosse ricordato suo padre negli anni a venire?

Vorrei che fosse studiato. Credo molto nel valore dello studio. E della scuola, purché sia realmente formativa. Ciascuno di noi ha un talento, palese o nascosto. Bisogna fare di tutto perché possa emergere.