L’analisi

È il boom di interesse il vero record delle Paralimpiadi

Questi giochi, che non ci han lasciati indifferenti, sono uno specchio della vita, ci interrogano su noi stessi e sulla nostra natura di esseri capaci di superare limiti impensabili, ma anche condannati a rimanere estremamente fragili

Martina Caironi Paralimpiadi

Domenica scorsa si è chiusa a Parigi la XVII edizione dei Giochi paralimpici estivi. Ideati da Ludwig Guttmann, un neurologo tedesco di origine ebraica, fuggito in Inghilterra durante il nazismo, che pensò di impiegare lo sport nella riabilitazioni dei soldati menomati a causa della guerra, questi giochi si sono svolti per la prima volta a Roma nel 1960, dopo l’Olimpiade di quell’anno. Con l’aggiunta nel 1976, in Svezia, dell’edizione invernale, essi si sono poi sempre svolti regolarmente, in coda alle Olimpiadi tradizionali, con partecipazione crescente di nazioni e atleti.

Parallelamente sono anche cresciuti l’interesse e la copertura mediatica per queste manifestazioni, tanto che le edizioni di Londra 2012 e Rio 2016, le ultime con spettatori in presenza prima di questa di Parigi (l’edizione di Tokyo 2020, svoltasi nel 2021, è stata soggetta a pesanti restrizioni anticovid), sono state molto seguite, con milioni di biglietti venduti e miliardi di spettatori televisivi.

 

Due milioni e mezzo di biglietti

 

 

Anche le Paralimpiadi appena concluse hanno suscitato molto interesse, con circa 2.500.000 biglietti venduti, impianti sportivi quasi sempre pieni di spettatori e record superati in termini di copertura televisiva globale e numero di delegazioni sportive presenti. Esse inoltre promettono di non essere un evento fine a se stesso, ma di avere ricadute importanti per il futuro, a partire dalla città ospitante, Parigi, che ha una rete metropolitana tra le più vecchie del mondo (la prima linea è stata inaugurata nel 1900), ma ha previsto proprio quest’anno un investimento di circa 15 miliardi in 20 anni per ammodernarla e renderla soprattutto più accessibile.

Anche da noi le Paralimpiadi parigine hanno ottenuto ottimi riscontri in termini di copertura mediatica e ascolti televisivi, mentre, sul piano prettamente sportivo, l’Italia, con 71 medaglie, ha superato il record di Tokyo e si è classificata sesta nella classifica generale. E a Bebe Vio, che gode già da anni di grande notorietà, si sono affiancati atleti come il romano Rigivan Ganeshamoorthy, oro nel lancio del disco, popolarissimo in rete per autoironia, simpatia e risposte spiazzanti date in un’intervista divenuta virale, e Martina Caironi che, vincendo l’oro in una drammatica gara dei 100 metri piani caratterizzata dalla caduta di due sue compagne di squadra e amiche, anch’esse fuoriclasse, Ambra Sabatini e la siciliana Monica Contrafatto, è divenuta l’atleta italiana più titolata nella storia delle Paralimpiadi.

Ma ci sono tanti altri campioni e campionesse, italiani e non, che si sono affermati nei giorni scorsi a Parigi con prestazioni eccellenti e ampio risalto sui media e che non possiamo menzionare tutti.

 

Giochi olimpici autentici

 

Possiamo però interrogarci sui perché dell’interesse per questi Giochi, nonostante non sia facile capire bene i criteri di classificazione delle varie competizioni, stabiliti al fine di renderle quanto più equilibrate possibile (gli atleti vengono divisi in varie categorie, individuate da codici alfanumerici, sulla base della gravità delle loro menomazioni); e nonostante non siano pochi coloro che mettono in dubbio il loro valore, sostenendo che non si tratti di autentico sport agonistico, perché quest’ultimo sarebbe soltanto quello praticato dai cosiddetti “normodotati”, quello che si esprime, ai massimi livelli, nelle Olimpiadi “vere e proprie”.

Anche su queste ultime, tuttavia, i dubbi non possono che insorgere, se non altro perché esse soffrono, da decenni, di un “gigantismo” irrefrenabile. La quantità di discipline sportive coinvolte, di delegazioni e atleti partecipanti, di risorse economiche e umane necessarie per organizzarle è esorbitante, tanto che solo poche nazioni, le più ricche o le più ambiziose, possono assumersi i costi e i rischi che esse comportano.

Se a ciò si aggiungono le ingerenze politiche sempre più marcate, la minaccia sempre incombente del doping (in misura proporzionale agli interessi economici e politici in gioco, così grossi da prevalere spesso su quelli sportivi), la presenza di sport, come calcio, golf o tennis, rappresentati ormai quasi esclusivamente da professionisti dalle retribuzioni spesso milionarie, in disaccordo con lo spirito olimpico tradizionale, i dubbi sul significato autenticamente sportivo di manifestazioni così gigantesche e cariche di ripercussioni di ogni genere non possono che uscirne rafforzati.

Può avvenire così che le esigenze e la sicurezza degli atleti passino decisamente in secondo piano rispetto ad altri fattori extra-sportivi, come si è visto nel caso limite delle gare di nuoto disputate nella Senna, palesemente torbida e quasi sicuramente inquinata, che però, nell’ottica di chi aveva il potere di decidere, doveva essere una vetrina scenografica di indiscutibile impatto.

Niente di tutto questo vale per i Giochi paralimpici che, a fronte degli eccessi e delle distorsioni dei “fratelli maggiori”, si svolgono in un clima di equilibrio, di moderazione e normalità che fa paradossalmente da contraltare all’accezione di “diversità” che li caratterizza, se non altro sul piano semantico.

 

Le fragilità di tutti

 

Ma c’è un altro aspetto, forse ancora più significativo, che a nostro giudizio può contribuire a spiegare perché questi Giochi, pur nella complessità della loro articolazione e dei loro regolamenti, attraggono sempre più attenzione. Si tratta del fatto che in essi vediamo, inconsciamente o meno, qualcosa che essenzialmente ci riguarda.

E avvertiamo, nel guardarli, che le categorie con cui solitamente vengono classificate le persone (abile, disabile, invalido, normodotato, diversamente abile e via dicendo) hanno in realtà ben poco senso.

Noi tutti (salvo purtroppo i casi più estremi) siamo abili in qualcosa e diversamente abili in qualcos’altro. Noi tutti, se non lo siamo personalmente, abbiamo familiari, amici, persone care interessate da qualche forma di menomazione, più o meno grave, più o meno invalidante, temporanea o irreversibile che sia.

Malattie, incidenti, avversità tali da sconvolgere l’esistenza possono colpire chiunque, e cambiargli la vita.

Fino a non molto tempo fa, i più sfortunati vivevano spesso ai margini della società, subivano con rassegnazione e purtroppo, talvolta, anche con un senso di vergogna, la loro condizione, avevano poche possibilità di mettere in gioco le doti, fisiche o mentali, che ancora possedevano.

Col tempo le cose sono cambiate, almeno nelle società più evolute e attrezzate, grazie alle micro e nanotecnologie, all’Intelligenza artificiale, alla robotica. Ma anche grazie alla maturazione delle coscienze, che ci induce sempre di più a vedere i cosiddetti “disabili” come persone con cui ci troviamo normalmente a convivere e interagire, e non come “diversi”.

Non è un caso che nell’ambito della scuola abbiamo assistito negli ultimi anni a una crescita molto consistente delle richieste di docenti di sostegno, nell’intento di integrare il più possibile gli alunni che presentano fragilità e limitazioni di ogni genere e grado e di aiutarli a esprimere le loro potenzialità; con tutti i problemi che comporta la formazione di professionalità adeguatamente qualificate a tale riguardo, come abbiamo avuto modo di sottolineare anche noi di Cefablu, attraverso un recente contributo (leggi).

Non c’è quindi affatto da meravigliarsi se le competizioni degli atleti paralimpici suscitano la nostra attenzione. Esse possono incuriosirci, stupirci, coinvolgerci, affascinarci, inquietarci, disturbarci, ma è difficile che ci lascino semplicemente indifferenti, perché sono uno specchio della vita, ci interrogano su noi stessi e sulla nostra natura di esseri capaci di superare limiti impensabili, ma anche condannati a rimanere estremamente fragili.

Ognuno di noi, per il solo fatto di esistere, deve fare i conti con ciò che chiamiamo “disabilità”. O prima o dopo, ma ineluttabilmente, se vive abbastanza a lungo. Ed è per questo che i Giochi paralimpici arrivano a coinvolgerci. In fondo, nel guardarli, non vediamo che un riflesso di quello che siamo.

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